Gli episodi del potere bizantino e la propaganda del Regno di Sicilia. Le formule consuete e gli outsiders del Liber ad honorem Augusti

The episodes of Byzantine power and the propaganda of the Kingdom of Sicily. The usual formulas and the outsiders of the Liber ad honorem Augusti

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> autores

Antonio Pio Di Cosmo

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Es Graduado en Jurisprudencia por la Universidad de Macerata. Con posterioridad se graduó en Letras y Bienes Culturales en la Universidad de Foggia, y desarrolló en Córdoba el Máster Inter- universitario en Arqueología y Patrimonio. Doctor en Arqueología Histórica por la Universidad de Córdoba y autor de ensayos publicados en revistas internacionales. Participó en diversos congresos, tanto en países europeos como en países latinoamericanos.

Recibido: 22 de enero de 2019

Aceptado: 22 de noviembre de 2019





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> como citar este artículo

Di Cosmo, Antonio Pio; “Gli episodi del potere bizantino e la propaganda del Regno di Sicilia. Le formule consuete e gli outsiders del Liber ad honorem Augusti”. En caiana. Revista de Historia del Arte y Cultura Visual del Centro Argentino de Investigadores de Arte (CAIA). No 15 | Segundo semestre 2019, pp. 1-17.

> resumen

Questo contributo analizza un metodo cognitivo per i “motivi erranti della regalità”, quali codici iconografici ed ideologici che passano da una cultura all’altra e sopravvivono sostanzialmente inalterati. In questo modo, si approfondiscono le soluzioni grafiche che modellano le concrete immagini del re di Sicilia e si distinguono gli outsiders.

Palabras clave: formule tradizionali, sistema tassonomico, outsiders, re di Sicilia, Liber ad honorem Augusti

> abstract

This contribution analyzes cognitive methodology for “wandering motive of royalty”, as codes that pass through cultures and survive substantially unchanged. In this way, scrutinizes traditional formulas as graphical solutions, that model concrete icons of king of Sicily and distinguishes the outsiders.

 

Key Words: tradicional formulas, taxonomic system, outsiders, king of Sicily, Liber ad honorem Augusti

Gli episodi del potere bizantino e la propaganda del Regno di Sicilia. Le formule consuete e gli outsiders del Liber ad honorem Augusti

The episodes of Byzantine power and the propaganda of the Kingdom of Sicily. The usual formulas and the outsiders of the Liber ad honorem Augusti

Come tutti gli ordini e le schiere celesti servono ad un solo Dio, così pure gli uomini, ordinati in province e regni, devono essere sottoposti a un solo monarca, in modo che il movimento del mondo, che procede da un solo Dio, suo creatore, ed è guidato da un solo sovrano, faccia crescere la propria pace ed unità…[1]

L’espressione introduce nella dottrina del potere dell’Impero d’Occidente il concetto tutto bizantino di taxis, quale idea fondamentale per decodificare il senso del proprio cosmo. Ciò apre alla categoria delle «sinfonie protocollari», che rileva una serie di assonanze rispetto agli espedienti del mondo romano orientale, mutuati nella dottrina del potere d’Occidente. Dimostra poi la circolazione di idee, ricondotte ad un immaginario comune. Tale volontà s’afferisce al ruolo svolto da Bisanzio non solo nella politica internazionale, ma sopratutto nella speculazione teorica e nella produzione artistica.[2] Un ruolo che non può essere liquidato.

Queste formule rappresentano un “modo di vedere” il mondo, che orienta prima di tutto l’immaginario collettivo, fin tanto da condizionare la cultura visuale comune. Un formulario autorevole, parte del patrimonio immateriale a cui gli stati d’Occidente possono ricorrere per esprimere determinate idee attraverso la propaganda visuale.

Si evidenzia un’urgenza euristica, a cui si risponde con l’introduzione di una nuova categoria cognitiva: i «motivi erranti della regalità», utile a rivisitare la fenomenologia del potere. Questa valorizza i motivi-base, che riescono a passare da una cultura datrice ad una ricettrice rimanendo sostanzialmente immutati, nonostante gli inevitabili adattamenti della cultura alloctona. Ciò permette di comprendere non solo alcuni meccanismi di costruzione della propaganda locale, ma spiega un più generale arcano della politologia dell’Età Media. I potenti in Occidente per delineare il proprio “specchio trionfante del potere”[3] sono soliti “forgiare” uno “specchio” che sovente si ammanta dei riflessi di Bisanzio; uno specchio deformante però, che restituisce l’immagine di chi si riflette in esso ingrandita.

 

Persistenze formali ed episodi del potere: tradizione iconografica, outsiders ed aspettativa sociale

Tale categoria richiede l’elaborazione di un metodo di lavoro che procede dall’analisi formale di una grande varietà di media legati agli episodi della regalità locale. Si raffronta un registro materiale monotematico, in cui le soluzioni adoperate per descrivere la figura del basileus influenzano la produzione dei territori già soggetti a Bisanzio, come l’area occupata dal Regno di Sicilia.

Il metodo realizza la visualizzazione e la razionalizzazione delle formule descrittive contenute nei prodotti locali della fenomenologia della regalità. In base all’aderenza del documento ad un preciso modello, ritenuto «classico», li inserisce entro un preciso sistema tassonomico.[4] Permette pure di redigere uno schema grafico capace di definire sul piano bidimensionale le coordinate in cui vanno a collocarsi i documenti visuali; soluzioni che riconducono la produzione locale ai “sottoprodotti” della bizantinità. La visione per tabulas, stigmatizzando la percentuale di aderenza del documento, rende più comprensibile il processo di mutuazione presso la cultura di riferimento (Fig. 0).

L’appropriazione viene agevolata dal riscontro di problematiche comuni, a cui si risponde con evidenze visuali che si rifanno al canovaccio delineato degli episodi del potere bizantino. Questo perché il modello è autorevole, prospetta una serie di espedienti sempre validi, nonché appare versatile.

Per valutare l’indice di sopravvivenza delle formule bizantine si individuano così i due criteri fondamentali: l’aspettativa sociale e l’aderenza alla consuetudine formale.

Sulla direttiva dell’aspettativa sociale si visualizza l’aderenza della formula all’immagine-base. Qui da un lato opera la corte, che è orientata al conservatorismo e segue una tradizione rappresentativa stabile ed ha poco interesse a pattuire segni e contenuti, tanto che preferisce ridurre al minimo le interazioni. Questa trova nell’assuefazione dell’occhio della controparte le ragioni che giustificano il perpetuarsi d’immagini e formule ritenute efficienti, ciò in base all’esperienza di somministrazione dei messaggi. Eccezionalmente però è la stessa corte ad aggiornare i modelli tradizionali alle contingenze. Dall’altro lato si ritrova il pubblico che, assuefatto a determinate convenzioni rappresentative, non gradisce immagini che contravvengono alla propria concezione del potere costituito.

Sulla direttiva della consuetudine formale invece si riscontra un’alta mobilità, perché vige una maggiore libertà interpretativa delle formule ed aumentano le possibilità di pattuizione fra corte, committente e pubblico. Questo perché si lascia spazio anche all’azione dei privati, relativamente alla condiscendenza regia. La frequente possibilità di interazioni e pattuizioni può portare all’erosione dei segni di status, che possono essere modificati o comunque appena abbozzati. Lo stesso può accadere alla prossemica che, pur muovendosi in formule consuete, può mostrare movimenti più liberi o ariosi.

L’eventuale aderenza dei documenti visuali generati in un contesto politico e geografico alloctono alle formule consuete attrae il documento verso il punto zero, ciò in ragione del quoziente di fedeltà all’immagine prodotta dalla basileia. Le variazioni della formula consueta costituiscono soluzioni che si collocano sempre più verso l’estremo della dimensione morfologica: si dimostra così un livello di interazione altissimo. Con l’aumentare della libertà transattiva si assiste al venir meno della forza coercitiva dei modelli e diviene possibile il cambiamento-aggiornamento delle formule consuete. Quest’operazione si realizza in un periodo che può essere piuttosto breve o anche molto lungo.

La modifica, seppure costituisce un punto di crisi per le costruzioni morfologiche, va vista nell’economia totale del ciclo vitale della formula, ove la rottura con la tradizione è piuttosto un momento che apre a successive fasi vitali della soluzione descrittiva.[5]

Al contrario la rarefazione delle interazioni e l’assuefazione dell’occhio permettono alle forme di cristallizzarsi e assolutizzarsi, tanto che può parlarsi di “canonizzazione” delle espressioni grafiche da parte dell’autorità. Questo processo rafforza l’indice di riconoscibilità dell’immagine.

Ne consegue che all’aumentare delle transazioni aumenta la possibilità di cambiamento della descrizione e il documento può essere collocato presso l’estremo della direttiva che misura l’aspettativa. Diminuendo l’aspettativa di una forma consueta anche il sistema iconografico “classico” si indebolisce e si permettono innovazioni sempre più rilevanti; ciò rende possibile l’allocazione del documento verso il limite estremo della direttiva della morfologia.

L’analisi della distribuzione dei prodotti sul grafico evidenzia il ruolo del committente, che può sperimentare nuove morfologie e si assume il “costo” sociale della scelta, quale possibilità di successo e/o insuccesso del messaggio veicolato.

Nei punti estremi del grafico si collocano i documenti che trasgrediscono la consuetudine iconografica, questi solitamente sono destinati ad un pubblico selezionatissimo, capace di recepire le espressioni divergenti che alterano o addirittura violano l’ordine tassonomico.

Il grafico enfatizza ancora gli elementi piuttosto stabili della soluzione e stigmatizza i fattori variabili, che concernono aspetti solitamente secondari e trovano una spiegazione nel contesto locale.

I dati evinti dai documenti visuali vengono così ordinati e posti su diversi punti. Questi possono essere uniti da un diagramma, che stigmatizza l’aderenza più o meno pedissequa al modello. Il grafico permette pure un’anamnesi delle affinità formali, evidenziando un corollario del processo di mutuazione: la risemantizzazione e la rifunzionalizzazione di formule e stilemi bizantini.

La questione investe non solo formule e resa stilistica, ma i dettagli come la fisionomia dei rappresentati, il panneggio, nonché la foggia di vesti e insegne. La riproposizione più o meno pedissequa del modello costituisce una parte del percorso artistico locale.

Questi elementi stilistici estranei, che nel locale segnano lo sviluppo della formula della regalità, provengono dal basso, ovverosia appaiono quali infiltrazioni del gusto locale. Infiltrazioni inevitabili durante il processo di risemantizzazione e rifunzionalizzazione della formula. Proprio queste intrusioni costituiscono i punti più alti del digramma e i momenti di rottura con la tradizione, in quanto forzature esplicite della consuetudine rappresentativa. Il grafico stigmatizza allora i momenti in cui la produzione autoctona tenta di emanciparsi dalla tradizione formale bizantina.

E se le soluzioni offerte dalla tradizione bizantina costituiscono un ampio novero di episodi da utilizzarsi secondo le esigenze, si nota come la loro alea di senso appaia in continua espansione, anche in ragione dell’intrinseca polisemanticità delle immagini. La versatilità va così intesa quale sorta di “clausola di salvaguardia” per il documento visuale, che esclude un “a priori” e prevede diverse forme di copertura per i differenti episodi del potere locale.

Il grafico riconduce a sistema persino le iconografie borderline, connotate da varianti dal forte valore innovativo. Variazioni che costituiscono dei “casi limite”: gli outsiders.[6]Soluzioni grafiche che si collocano in un punto sempre più vicino al termine ultimo della direttiva della morfologia e nei pressi di quello che può essere considerato un suo punto di rottura, laddove la formula non può essere più riconosciuta per quel che è. La scelta di soluzioni innovative si riverbera sul piano dell’aspettativa sociale, implicando il successo delle novità. Il grafico stigmatizza il ruolo di un pubblico che è tutt’altro che passivo, ma capace di determinare il successo delle alterazioni della formula e di innalzarle a cifra tipologica.

Il grafico allora accoglie e al contempo stigmatizza le anomalie degli outsiders. Si dimostra poi capace di registrare i casi di sinonimia morfologica ed ideologica, permettendo di riflette pure sui limiti di senso della formula stessa. Queste varianti assumono uno status “tassonomico speciale”[7] rispetto ad un modello formale replicato costantemente.[8] Il grafico valorizza infine il continuum del ciclo vitale della formula.

 

La formula dell’intronizzato: la parabola vitale di una soluzione descrittiva

Quanto ha inciso la formula dell’intronizzato nella propaganda visiva del Regno di Sicilia? La risposta pressuppone la comprensione della complessa dinamica vitale della soluzione grafica e del contesto in cui la formula ha ad attecchire e svilupparsi. Bisogna intendere poi se esiste una vera e propria aspettativa sociale ad una formula di matrice bizantina e deve pure considerarsi il grado di assuefazione del pubblico.

E se si può affermare l’esistenza di una certa propensione ad uno specifico immaginario, che è giustificata dalla presenza di un ampio pubblico assuefatto a formule greche, deve rilevarsi che la popolazione bizantina non sembra superare il 20 % del totale. Si costata però un ampio sostrato di cultura greca che spiega sia la buona ricettività, sia la predilezione per una determinata formula, apprezzabile nei termini di “domanda sociale”. I bizantinfoni si concentrano specie sulle coste e nell’area calabrese, mentre nell’interno è forte l’etnia longobarda a cui si mischiano elementi normanni; al contempo residua una presenza araba in Sicilia. E se la grande maggioranza della popolazione del regno non è bizantina, bizantina è sicuramente l’intelleghia di Ruggero che progetta la propaganda.

Bisogna anche considerare la ragione politica che spinge i sovrani normanni ad adoperare formule bizantine. Le strategie di autorappresentazione si riconducono all’illusione della continuità istituzionale, perché continuità significa legittimità.[9] Si vogliano così richiamare le immagini ufficiali circolanti nel territorio, che hanno assuefatto l’occhio per evitare lo spaesamento visivo dei fruitori. Non si fa altro che imitare le scelte iconografiche dei principi longobardi, come Giusulfo di Salerno, cognato del Guiscardo.[10] I normanni, assecondando l’immaginario collettivo, evitano il rischio di far risultare la propria immagine fin troppo estranea alle popolazioni preesistenti. Costoro hanno ben presente che non si può prescindere da formule note nell’elaborazione di metodi di comunicazione volti ad un pubblico fortemente assuefatto a soluzioni precise. A maggior ragione se si considera che l’istituzione monarchica è non solo giovane, ma anche mal tollerata sia dalle componenti autoctone e naturalizzate, sia dai baroni normanni.[11]

Eppure l’aderire a formule bizantine non può essere liquidato come soluzione di ripiego, ma risponde ad un’ansia di legittimità, che deriva dai controversi avvenimenti che portano alla costituzione del Regno, che ufficialmente nasce e si legittima nell’autorità pontificia. Si sceglie così di opporre all’autorità del papa le formule di descrizione del basileus, perché presuppongono una regalità autarchica, derivante direttamente da Dio.[12] Una soluzione capace sul piano concettuale d’oltrepassare l’infeudazione papale ed i riconoscimenti di ufficialità da parte dell’imperatore. Queste formule costituiscono così un argomento persuasivo di per sé per la politica di autorappresentazione dei sovrani normanni.La citazione della memoria bizantina, allorché predica il rapporto diretto con Dio del sovrano, costituisce pure una “coperta” posta a garanzia dell’istituto ed è utile nella politica internazionale. Dichiara la liceità dell’esercizio del potere monarchico, ricollegandosi ad una potestà legittima ed autonoma.[13]

Per quel che riguarda la produzione numismatica bizantina si osserva che, sin dal regno di Basilio I, si preferisce la soluzione grafica del Cristo Panbasileus assiso in trono, a cui si oppone il basileus stante.

Intanto la formula dell’intornizzato sopravvive nella miniaturistica indirizzata ad un pubblico elitario e capace di potersi permettere quello che nel Medioevo è considerato un lusso: il libro; l’immagine paradossalmente trova largo spazio nella produzione retorica.

Il locus riappare nella numismatica solo più tardi: Leone VI si fa rappresentare con l’erede su un trono dallo schienale a lira. Poi scompare, per comparire saltuariamente in qualche sparuta emissione della dinastia macedone. Dunque un lungo oblio. Lo iato temporale intercorrente con la produzione siciliana pone alcune problematiche filologiche nella ricostruzione della soluzione descrittiva. Pertanto è difficile dimostrare quanto della soluzione bizantina ha a sopravvivere e quanto possa incidere l’aspettativa dei fruitori.

Per intendere le ragioni che spingono al ripescaggio della formula descrittiva si deve considerare l’associazione sovrano-trono, che rafforza la memoria e la cognizione del ruolo del regnante, che va a collocarsi nel mobile capace di “contenerlo”.[14] Nemmeno può ignorarsi quell’attitudine antiquaria della propaganda visuale normanna, che è indirizzata alla selezione di espedienti formali dell’immaginario del potere della corte macedone.[15]La soluzione bizantina pertinente quell’episodio della regalità è troppo lontana nel tempo e non può avere che uno scarso successo presso i fruitori locali. Cosa che dimostra la rarità delle evidenze ed il breve periodo di conio. Un insuccesso che si spiega nella difficoltà patita nel riproporre una soluzione desueta per la memoria locale. Eppure la reintroduzione nell’immaginario normanno va forse spiegata con l’immediatezza del suo significante. Mentre il prototipo più immediato si ritrova nella majestas del Cristo o della Vergine. Tenendo conto di questo dato di fatto si può afferire la sua riproposizione non ad un esperimento fallimentare, ma si ha piuttosto a ricollegarlo ad una tradizione formale costante, che conta sui documenti visuali di matrice ecclesiastica.

Si deve così considerare una rara evidenza: il follaro emesso tra il 1130 ed il 1140 d.C. da Ruggero II (Fig. 1).[16] Una soluzione grafica che per Travaini può risalire persino al periodo in cui Ruggero è solo conte e, indi, al 1112-1113.[17] La formula rimanda alla cosiddetta Capsella della basilica di S. Eufemia a Grado (Fig. 2).[18] Questa silhouette, comune a molte immagini della Vergine basilissa che circolano nel Meridione di Italia, si pone come probabile ponte, che permette la riapparizione del locus sotto Ruggero. Solo il vuoto iconografico può spiegare la scelta di un’immagine femminile, forse perché familiare all’utenza. La soluzione della basilissa presenta dei profili che possono essere agevolmente manipolati ed adeguati alla rappresentazione di un sovrano. L’immagine adatta una figura nota ai fruitori, mutuando gli attributi della monarchia del Cielo per modellare la maestà terrena. Una memoria formale, quella della Vergine basilissa, che si ritrova nella posa estremamente frontale e nell’ampio gesto del braccio destro di Ruggero che tiene uno stauros stilizzato; in entrambi il braccio sinistro ha a ripiegarsi ed a poggiare sul grembo.[19] Ruggero, allo stesso modo della Vergine, ha le ginocchia particolarmente enfatizzate, in quanto segno di clemenza. Compare ancora nella moneta ruggeriana un panno che copre la seduta, elemento comune anche all’iconografia della Capsella e di matrice bizantina. Un altro segno di continuità si rileva nella cura per le colonnette che reggono il trono, rispetto alla semplicità generale del disegno. E se la Vergine viene rappresentata assisa su un trono dallo schienale a lira, l’intronizzato normanno siede su un faldistorio o su un trono a cassone. L’assenza dello schienale lascia spazio al titulus: “R II” (Rogerius II). Poco curata è la foggia del diadema, che pare appena accennato. Altrettanto poco curato è il volto, reso in modo stereotipato ed essenziale.

Stante l’aderenza del Ruggero intronizzato al modello “classico”, si può collocare l’evidenza sulla direttiva morfologica in un punto certamente prossimo allo zero e non oltre il primo quarto della medesima. Per quel che riguarda l’aspettativa si deve allocare il documento in un punto prossimo allo zero. La scelta della formula dimostra sommessamente che l’occhio dei fruitori è abituato ad una certa forma della maestà, cosa che spinge il committente a soddisfare una simile domanda nei termini del consueto, rifuggendo il rischio dell’irriconoscibilità.

Il locus dell’intronizzatosi ripete in un altro follaro in rame emesso da Ruggero II fra il 1130 ed il 1140, battuto anche questo dalla zecca di Messina (Fig. 3).[20] Il sovrano è rappresentano in estrema frontalità, la prossemica è però anomala: le braccia sono conserte ed appare privo di ogni attributo regio, salva la corona. Eppure una simile postura deve ricondursi ad una formula stereotipata che si ritrova nello Skylitzes Matritensis al f. 114v, scena b. Questa viene adoperata per descrivere l’atteggiamento dell’inuente al momento dell’imposizione della corona. Se ne deduce che nella descrizione di questo episodio della regalità vi è un preciso rimando ad una formula bizantina o, meglio, ad un suo sottoprodotto: la miniaturistica d’ispirazione bizantina realizzata nell’ambito dalla stessa corte normanna in un’epoca più o meno coeva. Il riferimento dimostra l’esistenza di stilemi diffusi, utili a raccontare al pubblico anche attraverso una prossemica ben definita il momento dell’accesso al regno. Sembrerebbe allora che la moneta “fotografa” la presa di possesso del trono. Gli unici attributi che qualificano il sovrano sono allora la corona, che sembra priva di pendenti e ovviamente lo scranno, assimilabile ad un faldistorio, perché privo di spalliera e con braccioli che terminano in elementi sferici. Anche la fisionomia appare di difficile lettura. Il titulus in greco in parte corrotto lo identifica come: “PO???? ANA?”.[21] Sul versante semantico s’annota che il lemma greco vuole rimandare ad un primitivo regno di Sicilia, alla cui tradizione di legittimità Ruggero suole rifarsi nel tentativo di tabuizzare la concessione vasallatica papale.[22] L’evidenza in ragione dell’aderenza morfologica alla tradizione bizantina, dimostrata filologicamente dalla formula dello Skylitzes Matritensis, si colloca presso il punto zero. Poca influenza ha la foggia del trono, che sposta leggermente l’allocazione della stessa sulla direttiva della morfologia. Per l’aspettativa poco o nulla si può dire di più. La formula sembra soddisfare una precisa domanda e l’evidenza può collocarsi nei pressi del punto zero. Si può così affermare che la formula bizantina attecchisce nel Regno di Sicilia.

La formula dell’intronizzato si ritrova molto tempo più tardi su un sigillo di Guglielmo II (Fig. 4), che accompagna i diplomi emessi fra il 1171 ed il 1189 d. C. e si rivolge ad un pubblico selezionato.[23] La maestà in trono rafforza la cogenza del contenuto dei diplomi, in quanto immagine fortemente significante, che trasmette la natura assoluta del potere. La Monarchia non può trascurare l’impatto visuale che i documenti hanno su questi destinatari «privilegiati». Tuttavia il ridotto numero di diplomi conosciuto rende difficile ricostruire l’effettiva efficacia della formula.

Il sigillo viene apposto ad un diploma datato al 15 aprile 1172, che concede poteri giurisdizionali all’arcivescovo di Palermo Gualtiero. Si presenta a forma di mandorla, alto 4,4 cm e largo 3,3 cm. Compare la leggenda: “W.[ILLELMVS] DEI GRA[TIA] REX SICILIE DVCATVS APVLIE ET PRINCIPATVS CAPVE”. Nel mezzo vi è inscritto il sovrano in trono, che è identificato dal titulus: “W[ILLELMVS] REX”. Guglielmo II veste il sakkos su cui indossa un loros ad Y con falda avvolta sul braccio. Con la veste di corte Guglielmo ostenta anche le ulteriori imperialia insigna di Bisanzio: tiene nella destra il labaro, mentre la sinistra regge l’orbe. La corona con pedilia simostra contaminata da caratteri occidentali, perché al posto della croce presenta delle cuspidi gigliate. Anche il trono è quello della tradizione bizantina, a cassone, fornito delle insegne minori: il pulvinar ed il suppedion. Il sovrano col lungo capello ed il volto quasi imberbe evoca il rex juvenes. Si raffonta un tipo fisiognomico poco caratterizzato, che rispecchia l’idea del «formosus», già locus della panegiristica.[24]

È difficile proporre una corretta collocazione sul grafico di un’evidenza, che appare come il collage di diverse parti di formule bizantine. I singoli elementi presi in considerazione possono collocarsi tutti sul punto zero, ma l’innovatività della loro composizione esula dalla formula “classica” e costituisce un’espressione iconografica sui generis. Sul piano morfologico si è così costretti a collocare l’evidenza entro il primo quarto della relativa direttiva. Diversamente si ha a dire dell’aspettativa. Il collage di elementi tutti bizantini, amalgamati in una figura equilibrata, presuppone sottili rimandi che i fruitori sono sicuramente capaci di decifrare, quali “trucchi” della propaganda. I dettagli eterogenei, che appaiono coerenti nell’economia generale della composizione, spingono ad una collocazione presso il punto medio della pertinente direttiva.

Sul piano della memoria iconica la formula può alludere anche ai sigilli dell’Impero Romano d’Occidente del sec. XI. Dà prova della libertà nell’elaborazione dei modelli iconografici e della possibilità di riferirsi ad una formula ritenuta forse «più onorevole», che dispensa dalla pedissequa imitatio Byzantii.[25] Stante l’autorevolezza del modello e la particolare situazione politica internazionale che affronta Guglielmo II, il ricorso ad una soluzione formale non bizantina non può essere liquidato come un tentativo di erosione della tradizione, ma si limita ad una forzatura, che non espone al rischio dell’irriconoscibilità.

La formula dell’intronizzato, anche grazie al suo successo nelle politiche di autorappresentazione dell’Impero d’Occidente, può sopravvivere nel programma iconografico a corredo del Liber ad honorem Augusti, un componimento poetico che magnifica l’imperatore Enrico VI, nuovo re di Sicilia. Tuttavia il programma iconografico dal punto di vista formale costituisce un importante sottoprodotto della cultura bizantina, declinato nello stile campano cassinese; ne rielabora poi le formule di maggior diffusione ed impatto, costituendo un’espressione ibrida. La reinterpretazione dei modelli bizantini permette di valutare la capacità di sopravvivenza di soluzioni, ormai prossime al loro punto di rottura. Il corredo iconografico del Liber rappresenta dunque il prodotto di un’operazione di cernita altamente meditata, che sceglie cosa conservare di Bisanzio, perché utile alla propaganda. Un’evoluzione affrettata dalla situazione politica: vengono meno le ragioni che hanno favorito l‘imitatio Byzantii a seguito dell’assorbimento del Regno nell’Impero d’Occidente. La potestà imperiale detenuta da Enrico diversamente si rispecchia in un potere originario.[26]

Appare degna di interesse una rappresentazione dell’intronizzato, che ripropone una vecchia strategia visuale che è più antica di Bisanzio, ma che viene mediata dalla stessa Bisanzio. Nell’immagine inscritta nel f. 146r Enrico VI si presenta di tre quarti, mentr’è accompagnato dal titulus: “HENR(ICUS) VI MAGN(US) ROMANOR(UM) IMP(ER)ATOR” (Fig. 5). Questi indossa una tunica verde, fornita di un ricco maniakis e di un’ampia banda aurea che dal collo scende fino alla vita, ornata da una cintura dorata. Al di sotto di questa riveste un’alba con lacinie ed armille dorate. La clamide, fermata poco al di sotto della spalla destra, è di color porpora. Un lembo di questa viene composto in pieghe sul ginocchio destro, evidenziandolo. La destra che si ripiega sul petto sorregge lo scettro gigliato, un’allusione alla virga virtutis. La sinistra innalza il globo. La prossemica rimanda al follis di Roberto il Guiscardo in veste di basileus, che a sua volta costituisce una ribattitura di un follis bizantino,[27] quale suo più immediato referente (Fig. 6). Un’immagine sicuramente nota nel locale, che si oppone alla formula della maestà fatta propria dai sigilli di Enrico.

Il grande globo d’oro identifica Enrico VI come sovrano ecumenico, mentre indossa la corona a placche con pendilia ed i pedilia di porpora. Il sovrano sta poi assiso su uno scranno a cassone fornito di suppedion e di un pulvinar di color verde, che sostituisce la porpora. Enrico ha le gote rossissime quale stilema della pittura campano-cassinese, a questo si aggiunge il volto glabro, quale rex juvenes.[28] Siamo di fronte ad un modello stereotipato.

Attorno al trono si dispongono sette figure femminili, che sono interpretate come le sette virtù. Le prime tre si sistemano alla destra e sono identificate con le virtù teologali, anche se compare meramente la didascalia: “VIRTUTES”. La presenza della spada presso l’allegoria più prossima alla destra del seggio costituisce un attributo fin troppo generico e non tipico di quelle. Alla sinistra dello scranno si dispongono altre quattro allegorie, identificate anche queste come “VIRTUTES”. Quella più prossima al seggio in segno di devozione china il capo davanti al sovrano e gli porge scudo ed elmo e viene identificata come “FORTITUDO”, la seguono altre due prive di titulus. Quella vicina alla Fortezza ha in mano una lancia, un’altra anonima ristà tra le due e si intravede appena. Il corteo è concluso da una figura con un libro che è identificata come “JUSTICIA”. Le due anonime indi non possono essere che la Prudenza e la Temperanza. L’offerta dell’armatura da parte delle virtù cardinali evoca un locus biblico inserito pure nell’ordo coronationis bizantino: gli eucologi cantano la vestizione del sovrano delle vesti marziali costituite dalle ipostasi delle stesse virtù.[29] Si è dunque di fronte ad un documento dal forte valore ontologico, che si rivolge direttamente all’imperatore magnificandolo, quale detentore delle sette virtù.[30] La spada offerta dalla virtù alla destra del trono viene a completare tale scena di investitura, alludendo all’arma brandita durante la cerimonia di incoronazione prevista dall’Ordine di Magonza ed evocata nelle formule del protocollo bizantino.[31] La presenza della lancia e del libro rimanda a due delle insegne facenti parte del corredo degli imperatori d’Occidente.[32] Gli oggetti evocano pure l’Ordo coronationis Adel Regno di Sicilia, che viene modellato sul precedente imperiale e comprende giuramento sul Vangelo e consegna della spada.[33]

La scena può contare su un autorevole background, che lascia sopravvivere nel mondo bizantino la presenza delle allegorie delle Virtù. Il referente diretto si rinviene nell’iconografia davidica come ha a dimostrare il ms Grec 139 al f. 7v, datato alla prima metà del sec. X e conservato alla Biblioteca Nazionale di Francia, laddove il re biblico viene circondato dalle allegorie della Sapienza e della Profezia.[34]

Compare un elemento che esula la tradizione del Bosforo e rende più difficile ricondurre al sistema tassonomico la rappresentazione, influenzando la sua collocazione nel grafico. Si stigmatizza la presenza della Rota Fortunae a corollario della scena. Una soluzione innovativa rispetto al contesto delle virtù. Sulla sommità della ruota si ritrova l’allegoria della Fortuna che, con la testa coronata e le mani giunte, rivolge una preghiera alle Virtù. La ruota schiaccia col suo peso un uomo barbuto, identificato dal titulus: “TANCRED(US)”. Il sovrano viene così rappresentato mentr’è travolto dalla stessa Fortuna che lo ha portato sul trono. Un trono che ora viene affidato ad Enrico, il quale accompagnato dalle Virtù pare al sicuro dai risvolti della sorte.[35]

Eppure per Frugoni il fine è ben più sottile. La scena sembra trasporre il contenuto del De Consolatione Philosophiae di Boezio, laddove si significa che il saggio non ha bisogno della Fortuna.[36] Nondimeno il contesto narrativo ribadisce un altro significante: il re filosofo nel regnare è assistito dalle Virtù.

I dati anomali spingono alla collocazione dell’immagine verso l’estremo delle due direttive fondamentali del grafico. Mentre la citazione di formule bizantine, seppur fortemente rimaneggiate, rende comunque possibile attrarre quest’immagine entro l’ultimo quarto di entrambe le direttrici, rifuggendo il rischio di classificarla come outsider. La soluzione descrittiva dell’intronizzato può essere agevolmente ricondotta al modello tradizionale. Sono solo le insegne occidentali come lo scettro fiorito e la corona alta ad allontanarla dalla ripetizione pedissequa di un modello tutto bizantino; tuttavia i fruitori sono già abituati a quest’ultima insegna fatta propria dai sovrani normanni. Indi per cui, la scena si colloca poco dopo la metà della direttiva della morfologia. È l’immissione di elementi a corollario come la poco convenzionale Rota Fortunae e la peculiare prossemica delle allegorie a rinnovare il modello tradizionale. Stante il forte valore ontologico del documento, il ristrettissimo pubblico a cui è destinato e considerando il suo diretto fruitore, che è in possesso degli strumenti cognitivi per comprendere i significanti veicolati, la scena si colloca sulla direttiva dell’aspettativa non oltre l’ultimo quarto della medesima.

La succitata miniatura prepara alla scena inscritta nel f. 147 r, laddove il locus dell’intronizzato viene rifunzionalizzato per rappresentare l’apoteosi di Enrico VI in termini sapienziali, quale nuovo Salomone (Fig. 7). Un sovrano che, guidato dalla Sapienza, riesce a trionfare sulla Fortuna, rappresentata priva della corona, segno del potere sul destino umano.

L’assimilazione con Salomone si realizza a tramite della collocazione su un trono che ricorda la morfologia del seggio biblico, che si crede traslato in data imprecisata a Costantinopoli.[37] La sua puntuale citazione costituisce una memoria formale dalla teoria del potere bizantino, quale indicatore dei processi d’immeticciamento nelle strategie d’autorappresentazione imperiale. Una “sinfonia protocollare” proposta quando ormai l’uso del Trono di Salomone a Costantinopoli è diventato desueto.

Enrico VI, identificato dal titulus “HENR(ICUS) IMP(ER)ATOR”, è intronizzato su un seggio con spalliera bassa e quadrata, fornito di pulvinar e suppedion. Questo si colloca poi su una scala di sei gradini, ognuno dei quali è fornito di una testa di leone, che ricorda la presenza dei dodici leoni del trono biblico. In prossimità del seggio compare la didascalia: “SEDES SAPIE(NTIAE)”.

La maestà richiede la porpora. Questi veste un ampio piviale ed una tunica purpurei, come i pedilia; splendono poi d’oro il maniakis, il cingolo, i clavi, le lacinee e, ancora, la banda sul petto. L’imperatore tiene nel braccio destro ripiegato sul cuore uno scettro d’oro con cimasa fiorita. Il globo mastodontico e tutto dorato è sorretto dal braccio sinistro levato. Torna la silhouette della moneta salernitana del Guiscardo. La corona è costituita da un alto stemma con cuspidi sferiche e fornito di pendilia. L’imperatore conserva il viso rasato e l’aspetto giovanile, più tipico dell’iconografia di Salomone, mentre il volto ieratico rimanda ad una maschera fisiognomica.

Dietro il trono si staglia l’allegoria della Sapienza, coronata, vestita di porpora e con ampio piviale verde. Questa assicura la sua presenza costante nella gestione del regno e con la sinistra allontana la Fortuna e la sua volubilità. Compare così la didascalia: “SAPI(ENTI)A CO(N)VICIA(N)S FORTUNE”.

La presenza di allegorie che si stagliano dietro il trono rimanda al Manoscritto Coislin 79 f. 2, dove Niceforo Botoniate siede in trono fra le virtù della Verità e della Giustizia (Fig. 8). Si riscontra una parte di formula che si rinviene pure nella miniatura al f. 19 del Tetravangelo Urb. gr. 2, ove si rappresenta Giovanni II ed Alessio Comneno incoronati da Cristo, il quale viene consigliato dalle Virtù della Compassione e della Giustizia collocate dietro il trono divino (Fig. 9). Tale immagine trova un altro puntuale riferimento in una miniatura della Bibbia reale di Copenaghen, che rappresenta Salomone intronizzato, mentre al lato del re si staglia una figura di donna identificata con la Sapienza.

Sul lato destro della scena è raffigurata la Fortuna ormai sconfitta. Si intravede poi Tancredi schiacciato dalla solita Ruota della Fortuna.[38] Sotto di questo si riscontra la presenza di un uomo barbuto le cui membra sono fatte a pezzi. La figura è identificata con Andronico I Comneno. La sua presenza non pare casuale per due ragioni. Andronico ha conquistato il trono macchiandosi dell’omicidio nel 1183, ma la folla fa scempio del suo corpo nel 1185. La miniatura, quale speculum principis, illustra gli effetti del buono e del cattivo governo. Andronico diventa il modello di conodotta negativa per eccellenza, quale controfigura di Tancredi.[39]

Attorno al sovrano compaiono ancora i personaggi più importanti della corte. Alla sinistra il committente dell’opera: Corrado di Hildesheim, a destra Marcovaldo d’Anweiler, mentre davanti al sovrano sta Enrico di Kalden.

La succitata miniatura presenta uno schema composito, che nel suo complesso ha ad allontanarsi dalle rappresentazioni tradizionali bizantine. Tuttavia non appare possibile poter giungere ad una simile articolazione scenica senza quegli stilemi di derivazione bizantina, che si pongono alla base della costruzione della raffigurazione. Premessa la facile riconoscibilità delle parti di formula, si comprende come l’immagine debba collocarsi in una postazione che supera la metà della dimensione morfologica, ma che non va oltre i tre quarti. La possibilità di riconoscere parti di formule, a cui il pubblico è assuefatto, permette una collocazione sulla direttiva dell’aspettativa non troppo vicina al suo limite. Tali espressioni morfologiche giustificano l’inserimento dell’immagine nei sottoprodotti della bizantinità e fugano ogni sospetto che può suggerire l’inserimento di questa fra gli outsiders.

Gli Outsiders. Nuove possibilità per la descrizione degli episodi della regalità: le soluzioni del Liber ad honorem Augusti

A margine della teoria della diffusione dei “motivi erranti della regalità”si riscontrano le problematiche concernenti l’aggiornamento e l’adeguamento al contesto locale delle formule bizantine adoperate per descrivere gli episodi del Liber ad honorem Augusti. Soluzioni che costituiscono degli outsiders rispetto al sistema tassonomico e alla consuetudine iconografica di cui la propaganda dei re di Sicilia si nutre. Formule descrittive che, reinterpretando il corredo formale della bizantinità, aprono ad ulteriori fasi vitali delle formule grafiche, in ragione delle finalità narrative.

Si procede dalla rappresentazione di Enrico VI intronizzato, che assolve Riccardo Cuor di Leonedall’accusa di omicidio di un marchese, mentr’è in Terra Santa (Fig. 10). Tale scena viene completata dalla didascalia: “TANDE(M) VENIA(M) PETE(N)S LIB(ERE) ABSOLVIT(UR)”. La miniatura, contenuta nel f. 129 r del Liber,[40] adopera stilemi consueti della tradizione bizantina e una morfologia nota. Eppure la formula viene svuotata del suo significato originario, tanto che la si risemantizza e rifunzionalizza in un contesto del tutto nuovo rispetto a quello per cui la prossemica è diventata consueta. Tale innovazione parte dalla proskynesis di Riccardo d’Inghilterra. La scena viene contemplata al di fuori del contesto consueto: la devozione imperiale o una scena di trionfo, come quella della proskynesis innanzi a Basilio II nella miniatura del cod. vat. gr 1613.[41] Il più diretto riferimento formale si ritrova però nei documenti visuali a finalità devozionale, quali la lunetta di Santa Sofia, laddove Leone VI sta prostrato innanzi al Cristo (Fig 11). La gestualità nota nel caso di specie viene del tutto decontestualizzata, perché staccata dal suo sentore religioso,[42] né ha a rimandare direttamente al culto imperiale.

L’imperatore si presenta intronizzato, raffigurato di tre quarti e secondo proporzioni gerarchiche, mentre è rivolto verso re Riccardo. Il trono, a spalliera quadrata, è quello tipico delle rappresentazioni dei sigilli imperiali occidentali e non si allontana di molto dalla tradizione descrittiva del Tardoantico o dell’età Proto-bizantina. Il seggio è accompagnato da un pulvinar verde come l’abito del sovrano. Enrico VI è rivestito di un piviale scarlatto dai ricchi bordi, fermato al petto da una spilla. Regge nella mano una pianta fiorita, forse simbolo della virga iurisditionis ed evocazione biblica del ruolo di legislatore supremo. Appare ornato di una corona a placche.

Riccardo in proskynesis è rivestito di una tunica chiara, segnata da una vistosa croce patente rossa. Lo status regio è segnalato solo dalla corona a placche, forse d’argento, materiale che si addice ai re. Ciò lo distingue inequivocabilmente da Enrico VI che, in quanto imperatore, è titolare dell’oro e dei suoi diritti.[43] La composizione lascia addirittura pensare che Riccardo stia baciando i piedi di Enrico. Si inscena dunque una prossemica commovente, trasfigurata entro una comportamentalità canonizzata dal protocollo.[44] Enrico appare asettico ed evoca un’icona con la sua estrema fissità. Al contrario Riccardo alza gli occhi verso l’imperatore, dettaglio che viola lo schema bizantino. Un’espressività che viene rafforzata dalle gote rossissime. Cromia che contrasta con il tenue colore delle gote di Enrico, che pare quasi trasfigurato nell’amministrare la giustizia, oltre ogni convenzionalità del ritratto medievale. Sulla sinistra troviamo un cavaliere ed un paggio che regge il mantello di Riccardo, contraddistinto anche questo dalla croce rossa.

La composizione della scena ha come effettivo precedente un altro “sottoprodotto” della bizantinità, ovvero la miniatura al f. 37r dello Skylitzes Matritensis (Fig. 12).[45] Qui si ripete la rara prossemica di un sovrano in proskynesis: Tommaso lo slavo. Questi si prostra ai piedi del basileus Michele II intronizzato. La formula in sé appare rara, eppure la rappresentazione del basileus in vesti militari si muove all’interno dell’alea semantica della tradizione, evocando un corollario dei riti di trionfo. L’artista, che traduce la scena, sembra conoscere bene la tradizione formale ed ideologica bizantina e la compone quale vox media rispetto al precedente.

La miniatura del Liber va ad allocarsi su entrambe le direttive ben oltre l’ultimo quarto delle stesse e prossima alla loro fine, perchè la formula grafica, seppur nota, viene colorita da dettagli che non possono ricondursi al tipo “classico”. La scena sfrutta una formula consueta, ma la rifunzionalizza e la risemantizza per creare una descrizione che sul piano del senso appare atipica. Ciò spinge verso il limite l’alea semantica della soluzione, che si dimostra così innovativa. Il nuovo sentire di cui viene caricata ha anche a tradire l’aspettativa sociale, perché del tutto nuovo e non previsto nel modello di base. Il messaggio, che si affida alla scena e la caratterizza, obbliga alla collocazione presso lo spazio del grafico riservato agli outsiders.

La miniatura del Liber collocata al f. 143r rappresenta Federico I nell’atto di incoronare imperatore il figlio Enrico VI (Fig. 13). Siadopera una formula “classica”: l’intronizzato e la si fonde con quella altrettanto «classica» dell’incoronazione mistica, come quella di Guglielmo II a Monreale (Fig. 14). Essa è però utilizzata per tradurre un tema diverso da quello per cui la formula è stata prodotta, pertanto può essere considerata un outsiders.[46] I personaggi rappresentati sono identificati attraverso i tituli: “FREDERIC(US) IMP(ER)ATOR” per la figura al centro, “HENR(ICUS)” per quello a destra e “PH(ILI)PP(US)” per quello a sinistra; si rappresenta la “SEXTA DOM(US) IMP(ER)II”. La formula prevede una doppia gestualità: descrive l’imposizione della corona in capo alla figura collocata alla destra ed, al contempo, la benedizione o atto di investitutra in favore del personaggio posto a sinistra. Nel comporre la scena l’artista si è mosso in un campo conosciuto, adoperando stilemi consueti, che assumono però un nuovo significato.

La rappresentazione magniloquente di Federico I ricorda quella del Cristo inscritto nella tavoletta eburnea di Ottone II e Teofano ora al museo di Cluny. Rimembra ancora le estemporanee miniature degli Exultet di Troia, in ragione dell’estrema frontalità.[47] L’imperatore indossa una lunga tunica carminia, che evoca la porpora. L’indumento è fornito di maniakis, su cui è imposta un’ampia banda dorata che giunge fino alla lacinia inferiore, nonché si orna di clavi e armille aurei. Ancor più efficace dal punto di vista cromatico è il piviale, reso col cinabro puro. In tal modo si crea un gioco di panneggi, che evidenzia il solito ginocchio sinistro. Indossa ancora un alto stemma, che aggiunge ai pendilia bizantini la presenza di cuspidi orientate in maniera cosmica di tradizione occidentale. Il trono su cui l’imperatore siede è di foggia a cassone, fornito delle insegne minori: un pulvinar di color verde ed un suppedion foderato in blu. Desta interesse un ulteriore particolare: la christomimesis dell’imperatore. Il volto cristico di Federico I riempie i vuoti di significatività aperti dalla complessa operazione culturale, che sottende alla composizione della scena ed alla manipolazione delle morfologie consuete. Il bianco della chioma potrebbe suggerire il locus rappresentativo dell’ “Antico dei giorni”; ciò a confermare la metafora messianica che concerne il regno di Enrico.

Si raffronta una scena che viene costruita come una sorta di puzzle di diverse parti di formule “classiche”. Indi per cui, la soluzione grafica non può essere liquidata come novità formale e rimanda pure al dittico di Romano II ed alle monete di Romano IV.[48] Nemmeno costituisce troppa novità la figura di un intronizzato che pone la corona sul capo di un personaggio viciniore o gli consegna un oggetto mitico: il referente immediato si può ritrovare nel mosaico del triclinio leoniano. Eppure a compiere questo gesto è consuetudinariamente il Cristo o, al massimo, un santo, come Pietro, e non certo l’imperatore. Si introduce una novità sul piano ideologico che esula l’aspettativa sociale.

Il ristretto novero dei destinatari, limitato alla corte, non pone particolari problemi di spaesamento visivo. Anzi, trattandosi di un documento progettato per non circolare, si comprende bene come possano trovare spazio una serie di soluzioni formali spesso ardite. Enrico viene incoronato con un alto stemma con pendilia e cuspidi orientate cosmicamente. Questi veste ancora unabbigliamentoibrido. Sulla tunica purpurea, decorata dall’ampia banda verticale, indossa una clamide allacciata sulla spalla destra. La posa di Enrico declina ulteriormente la formula, giacché lo vede stringere con entrambe le mani un lungo scettro dalla cimasa fiorita, a cui sembra quasi appoggiarsi.

Filippo, che è collocato alla sinistra, si pone rispetto al padre nella posa della devozione, caratterizzata dai palmi semiaperti e rivolti verso il basso. In qualità di principe veste la porpora e presenta una tunica dalle corte maniche fornita di lacinee auree. Mostra ancora una stretta sottoveste assimilabile all’alba, anch’essa di porpora e decorata con armille d’oro; la vita è stretta da un cingolo dorato, mentre i pedilia sono sempre purpurei. Al contempo presenta un ampio manto carminio, che svolazza leggero sotto il ciborio ed alleggerisce con le sue linee la solenne prossemica.

La presenza di parti di formule consuete e ben amalgamate nel risultato finale permette la collocazione sulla direttiva della morfologia poco oltre il terzo quarto. Diversamente l’adoperarsi di iconografie “classiche” o parti di esse, aggiornate opportunamente e poi svuotate di porzioni di senso per acquisirne dell’altro, non può non incidere la relativa aspettativa. Formule che sono rifunzionalizzate e risemantizzate per veicolare ulteriori significanti in origine non previsti. Per quel che riguarda l’inserimento nel prefato grafico si può dire che il documento sicuramente si colloca all’apice estremo della dimensione dell’aspettativa. Pare difficile ravvisarsi un’aspettativa sociale che possa prediligere quella specifica morfologia per una scena che viola il repertorio tradizionale degli episodi della regalità. Scena che deve considerarsi del tutto nuova, ovviamente rispetto al messaggio che si vuole trasmettere.

Nondimeno si deve tenere in conto l’intero contesto in cui la miniatura va a collocarsi: questa viene associata ad una rappresentazione di re David, quale citazione di un “lessema” della teoria del potere medievale.[49] Si oppone ai fruitori una giustificazionein chiave escatologia dell’elezione al trono di Enrico VI, cosa che genera un’aspettativa messianica.

 

Conclusioni

Queste immagini, che esprimono una significativa porzione dell’imaginario del potere bizantino, costituiscono un repertorio iconografico utile alla costruzione della formula locale. Una soluzione composta da elementi che si assemblano, si sussumono e si eliminano in ragione dell’opportunità. Ogni rappresentazione configura un prodotto che rimanda ad un immaginario in fieri, che aggiorna le stesse categorie da cui origina.

Quali sono le ragioni che spingono i sovrani siciliani e, persino, coloro che si rivolgono ad Enrico VI appena incoronato ad adoperare iconografie dal sapore bizantino? Si può intravedere nell’appropriazione dei motivi erranti della regalità da parte di Ruggerro II un tentativo di superamento dei presupposti giuridici della monarchia da lui innaugurata. La necessità d’affermare il diritto al regno degli Altavilla giustifica l’adesione ad una serie di soluzioni, che costituiscono dei sottoprodotti della regalità bizantina ed il frutto di una precisa strategia di selezione della memoria.[50] Questa opzione non può non avere conseguenze, influenza i successivi monarchi normanni e si oppone alla fenomenologia del potere di Enrico VI. E se si considera che il Liber ad honorem Augusti è diretto all’imperatore, si può comprendere come il ricorso a stilemi ritenuti motivi oramai comuni, può essere cosa alquanto gradita al destinatario. Soluzioni che vanno ricondotte ad ulteriori fasi vitali della formula-base.

E se i normanni preferiscono proporre una riproduzione quasi pedissequa di formule bizantine, il cancelliere Corrado di Hildesheim ha ad opporre una tradizione locale che crede altrettanto autorevole. Una tradizione formale che non è però del tutto autonoma, ma presenta plurimi aspetti afferibili ad una dimensione comune. Gli outsider allora non rappresentano il sopraggiungere della morte della formula, ma un momento di alterazione della tradizione, che preannuncia la loro evoluzione. Siamo ad un nuovo punto di partenza insomma.

 

Notas

[1] Monumenta Germaniae Historica, Legum Sectio 4/2, n° 80, 1, en: Jakob Schwalm (ed.), Stuttgart, Hahniani, 1909-1911, p. 802.

[2] Agostino Pertusi, “Bisanzio e l’irradiazione della sua civiltà in Occidente nell’alto medioevo”, en: Centri e vie d’irradiazione della civiltà nell’alto medioevo, Atti delle Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, XI, Spoleto, CISAM, 1964, pp. 96-124; IbidemIl pensiero politico bizantino, Bologna, Pàtron, 1991.

[3] Glauco M. Cantarella, Principi e corti. L’Europa del XII secolo, Torino, Einaudi, 1997; Ibidem, “Le basi concettuali del potere”, en: Franco Cardini, Maria Saltarelli (dirs.), Per me reges regnant. La regalità sacra nell’Europa medievale, Rimini-Siena, Il Cerchio, 2003, pp. 193-207.

[4] M.G. Bulmer, Principles of Statistics, Dover, Dover Publications, 1967, pp. 5-25; Enge Hviding y Synnove Bendixsen, Critical Anthropological Engagements in Human Alterity and Difference, Cham, Palgrave, 2017.

[5] Franz Saxl, La storia delle immagini, Roma-Bari, La Terza, 1982.

[6] Mary Douglas, Antropologia e simbolismo. Religione, cibo e denaro nella vita sociale, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 127.

[7] Ibidem, p. 142.

[8] Idem.

[9] Otto Demus, Byzantine mosaic decoration, Torino, Trench Trubner, 1947; IbidemThe Mosaics of Norman Sicily, New York, Routledge & Paul, 1988; ibidemL’arte bizantina e l’Occidente, Torino, Einaudi, 2008.

[10] Giusulfo principe di Salerno in alcuni folles si fa rappresentare con la veste di corte bizantina, col labaro e lo sphaeron; Lucia Travaini, La monetazione nell’Italia normanna, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 1995.

[11] Mirko Vagnoni, “L’immagine dei re di Sicilia”, en: Marco Bussagli, Glauco M. Cantarella, Fulvio Delle Donne, Luigi Russo, Mirko Vagnoni (dirs.), Svevi, Angioini, Aragonesi. Alle origini delle Due Sicilie, Fagagna, Udine, Magnus, 2009, pp. 49-68; IbidemLe rappresentazioni del potere. La sacralità dei normanni di Sicilia un mito? Bari, Caratteri Mobili, 2012; Ibidem, “Rex et sacerdos christomimetes. Alcune considerazioni sulla sacralità dei re normanni di Sicilia”, Mediaeval Sophia, vol. XIII, 2012, pp. 268-284; Ibidem, “Epifanie regie nel regno normanno-svevo di Sicilia”, De Medio Aevo, vol. III, 2013, pp. 91-120.

[12] Ernst Kantorowicz, “Laudes Regiae”: Studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto del sovrano nel Medioevo, Milano, Medusa, 2006; Ibidem, “On the Portrait of Roger II in the Martorana in Palermo”, Proporzioni. Studi di storia dell’arte, vol. III, 1950, pp. 30-35; IbidemI mosaici di Monreale, Palermo, Flaccovio, 1960; Ibidem, “Some Reflections on Portraiture in Byzantine Art”, en: W. Eugene Kleinbauer, The Art of Byzantium and the Medieval West: Selected Studies, Bloomington-Londra, Indiana University Press, 1976, pp. 256-269; Ibidem, “The Byzantine Contribution to Western Art of the Twelfth and Thirteenth Centuries”, en: Kleinbauer, The Art…, op. cit., pp. 357-388; IbidemI mosaici di Santa Maria dell’Ammiraglio a Palermo, Palermo, Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici, 1990; Wolfgang Krönig, Vecchie e nuove prospettive sull’arte della Sicilia normanna, Atti del Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia Normanna, 4-8dicembre 1972, Palermo, Palermo, Istituto di Storia medievale dell’Università di Palermo, 1973, pp. 132-145; Byzantino-Sicula V. Giorgio di Antiochia: l’arte della politica in Sicilia nel XII secolo tra Bisanzio e l’Islam, en: Mario Re, Cristina Rognoni (dirs.), Palermo, Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici, 2009.

[13] Mirko Vagnoni, “Problemi di legittimazione regia: ‘imitatio Byzantii’”, en: Edoardo D’Angelo, Claudio Leonardi (dirs.), Il papato e i Normanni: temporale e spirituale in età normanna, Atti del convegno di studi, Ariano Irpino 6-7 dicembre 2007, Firenze, Galluzzo, 2011, p. 58.

[14] Gerard De Champeaux, I simboli del Medioevo, Milano, Jaka Book, 1997.

[15] Giovanni Alteri, “Immagini della storia sulle monete bizantine”, en: Giovanni Morello, Gli splendori di Bisanzio, Milano, Fabbri Editori, 1990, p. 76.

[16] Rodolph Spahr, Le monete siciliane. Dai Bizantini a Carlo I d’Angiò (582-1282), Zurich, Association International de Numismates Professionales, 1976, tav. XIX.

[17] Travaini, La monetazione…, op. cit., p. 444.

[18] Isabella Spinelli,“Le capselle-reliquario nella Basilica di S. Eufemia a Grado”, Porphyra, vol. XI, 2008, p. 59.

[19] Gilbert Dagron, “From the mappa to the akakia: symbolic drift”, en: Hagit Amirav, Bas ter Haar Romeny (dirs.), From Rome to ConstantinopleStudies in Honour of Averil Cameron, Leuven-Paris-Dudley, 2007, Peters Publisher, pp. 203-220.

[20] Travaini, La monetazione…, op. cit., n° 192, fig. 4

[21] Spahr, Le monete…, op. cit., p. 115; Travaini, La monetazione…, op. cit.,pp. 51, 282-305, tav. 12, fig. 177; tav. 13, figs. 200, 202; tav. 15, figs. 250, 252, 253, 255, 257, 258; tav. 16, figs. 261-262.

[22] Delogu, “L’evoluzione politica dei Normanni d’Italia fra poteri locali e potestà universali”, en: Atti del Congresso internazionale…, op. cit., pp. 51-104.

[23] Mirko Vagnoni, Raffigurazioni regie ed ideologie politiche. I sovrani di Sicilia dal 1130 al 1343, s.l., 2008, p. 40; Arthur Engel, Recherches sur la numismatique et la sigillographie des Normands de Sicile et d’Italie, Paris, Leroux, 1882, pp. 86-87; Delogu, Idee…, op. cit., pp. 185-214.

[24] Petri de Ebulo Liber ad honorem Augusti, Giovanni B. Siragusa (ed.), Roma, 1906, Forzani, p. 7; Pietro da Eboli, Liber ad honorem Augusti, en: Theo Kölzer, Marlis Stähli (eds.), RSI, vol. XXX, Thorbecke, Verlag, 1994, p. 41; Glauco M. Cantarella, Il pallottoliere della regalità: il perfetto re della Sicilia normanna, en: Pietro Corrao, Igor E. Mineo (dirs.), Studi in onore di Vincenzo D’Alessandro, Dentro e fuori la Sicilia, Roma, Viella, 2001, p. 7; Salvatore Tramontana, Il Regno di Sicilia. Uomo e natura dall’XI al XIII secolo, Torino, Einaudi, 1999, p. 267.

[25] Delogu, Idee…, op. cit., pp. 185-214.

[26]Hannelore Zug Tucci, “Le incoronazioni imperiali nel Medioevo”, en: Cardini y Saltarelli (dirs.), Per me reges regnant…, op. cit., pp. 119-136.

[27] Travaini, La monetazione…, op. cit.,tav. 4, n° 32.

[28] Glauco M. Cantarella, “Le basi concettuali del potere”, en: Cardini y Saltarelli (dirs.), Per me reges regnant…, op. cit., p. 197.

[29] Euchologium Barberini, Codice Vaticano graeco 336, pp. 290-295.

[30] Petri de Ebulo Liber…, op. cit., pp. 159-160.

[31] Hannelore Zug Tucci, Le incoronazioni…, op. cit., pp. 119-136.

[32] Jan Richter, Die Reichsinsignien, Würzburg, Sommersemester, 2003.

[33] Ordo A, 19; Reinhard Elze, “Tre Ordines per l’incoronazione di un re e di una regina del regno normanno di Sicilia”, Atti del Congresso Internazionale…, op. cit., p. 449.

[34] Hugo Buchthal, The Miniatures of the Paris Psalter, a Study in Middle Byzantine Painting, London, Periodical Service Company, 1938.

[35] I quattro punti della ruota sono contrassegnati dalle seguenti didascalie che si dispongono attorno in senso orario: ‘GLORIOR ELAT(US)’; ‘DISCENDO MINORIFICAT(US)’; ‘INFIM(US) AXE TEROR’ e ‘RURSUS IN ALTA FEROR’ ormai quasi illeggibile. Didascalie che paiono aggiunte da una mano diversa. Petri de Ebulo Liber…, op. cit.,pp. 159-160; Chiara Frugoni, “‘Fortuna Tancredi’. Temi e immagini di polemica antinormanna in Pietro da Eboli”, en: Studi su Pietro da Eboli, Roma, CISAM, 1978, pp. 161-164, nota 112.

[36] Frugoni, “‘Fortuna Tancredi’…”, op. cit., pp. 161-164, nota 112.

[37] Giorgio Ravegnani, Imperatori di Bisanzio, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 106.

[38] Frugoni, “‘Fortuna Tancredi’…”, op. cit., pp. 161-165.

[39] Petri de Ebulo Liber…, op. cit., pp. 160-161; Frugoni, “‘Fortuna Tancredi’…”, op. cit., pp. 161-165.

[40] Petri de Ebulo Liber…, op. cit., p. 147.

[41] Hans Belting, Il culto delle immagini, Roma, Carrocci, 2001, p. 120.

[42] Viktor Lazarev, Storia della pittura bizantina, Torino, Einaudi, 1967, pp. 145-146.

[43] Franco Cardini, “Signum gloriae”, en: Cardini, Saltarelli (dirs.), Per me reges regnant…, op. cit., pp. 185-192.

[44] Ordo B, c 16; 119; Elze, “Tre Ordines…”, op. cit., pp. 438-459.

[45] Ioannis Scylitzae Synopsis Historiarum, en: Johannes Thurn (ed.), CFHB, Berlin-New York, De Gruyter, 1973, p. 40.

[46] Mirko Vagnoni, Dei gratia rex Sicilie. Scene d’incoronazione divina nell’iconografia regia normanna, Napoli, FedOA, 2017, pp. 81-113; IbidemLe rappresentazioni…, op. cit., p. 278.

[47] Lucia Speciale,“Liturgia e potere. Le commemorazioni finali nei rotoli dell’Exultet”, Mélanges de l’École française de Rome, Vol. CXII 2000, Roma, pp. 191-224.

[48] Rocco A. Carile, Gerarchie e caste, en: Immagine e realtà nel mondo bizantino, Bologna, Lo Scarabeo, 2002, pp. 123-176; Ibidem, “La sacralità rituale dei ???????? bizantini”, en: Cardini y Saltarelli (dirs.), Per me reges regnant…, op. cit., pp. 53-95.

[49] Glauco M. Cantarella, “Historia non facit saltus? Gli imprevisti normanni”, en: Glauco M. Cantarella, Francesco Santi (dirs.), I re nudi. Congiure, assassini, tracolli ed altri imprevisti nella storia del potere, Spoleto, CISAM, 1996, pp. 9-38; Ibidem, “Qualche idea sulla sacralità regale alla luce delle recenti ricerche: itinerari e interrogativiStudi Medievali, Vol. XLIV, 2003, pp. 911-927; Id., Il pallottoliere…, op. cit., p. 4.

[50] Glauco M. Cantarella, Medioevo. Un filo di parole, Milano, Garzanti, 2002, p. 4.